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I Miti Psicologici e le False Credenze

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#LILIPSY by Fabrizio Di Girolamo

I Miti Psicologici e le False Credenze

Come il nostro pensiero ci incatena e influenza la visione degli eventi

Alcuni comportamenti inadeguati o disadattivi possono essere rinforzati dalla adesione a delle “credenze” (pensieri molto ramificati e profondi, spesso però basati su inferenze errate e superficiali) che sono in antagonismo tra loro. Basti pensare al ruolo della donna nella società qualche decennio fa: se una donna aveva la passione per lo sport e l’atletica, i vincoli familiari e sociali del tempo (collegati alla credenza secondo il quale la donna doveva essere prima di tutto genitrice) entravano in antagonismo con questa passione, creando conflitto. L’evoluzione socio-culturale che caratterizza il nostro tempo concepisce e sviluppa al suo interno valori tali da incoraggiare aggressività, prevaricazione, individualismo, qualunquismo e nel contempo denigrare l’umiltà, lo spirito di sacrificio, il senso della collettività. La tensione per realizzare l’adesione e l’adeguamento nei confronti di tali vincoli sociali (a costo di rinnegare e modificare la spontanea espressione di sé e di disconoscere i propri bisogni e le reali aspirazioni) è origine di un contrasto interiore tra ideale e reale, fonte inesauribile d’ansia. Avviene così che, ad esempio, tutti noi abbiamo una concezione “eroica” dell’uomo: ne ricerchiamo l’efficienza sempre ed ovunque, la velocità, la correttezza, il successo nella vita: ovviamente è una concezione ideale che non è applicabile alla realtà. La falsa conoscenza sulla natura dell’ansia che altro non è se non una naturale risposta a stimoli reali o percepiti come tali di minaccia, preclude la possibilità di un accomodamento emotivo, alimentando così l’ansia che a sua volta agirà come inibitore delle facoltà ed energie necessarie al superamento dell’ostacolo da rimuovere. Questo meccanismo innalza le possibilità di insuccesso e ciò contribuirà ad indebolire la fiducia e il rispetto di sé, la coscienza di una propria dignità. Nell’ambito della Psicologia Assertiva esistono fondamentalmente 4 grandi credenze, chiamate in gergo psicologico “Miti”, per enfatizzare l’assoluta irrealtà di questi pensieri.

Ma cos’è concretamente un’emozione? Riuscireste a descriverla? Una delle maggiori difficoltà per molte persone è proprio quella di esprimere e descrivere le proprie emozioni, che vengono percepite come un insieme di sensazioni vaghe non ben definite. In realtà l’emozione è un episodio complesso a più componenti, di breve durata e che è collegato ad una causa chiara e specifica. Lazarus (1991) ha individuato addirittura 6 componenti che, insieme, definiscono un’emozione:

Il Mito dell'Ansia

Le persone soggette al mito dell’ansia sono terrorizzate all’idea di poter rivelare agli altri la propria ansia, poiché essa è vissuta come prova e indice di debolezza. Tale comportamento è una conseguenza dell’adesione ad un ideale d’uomo tutto di un pezzo che può contare in ogni circostanza sulla perfetta padronanza di se stesso. D’altro canto, lo sforzo per sfuggire l’ansia rende l’individuo più sensibile ad ogni aumento, seppur minimo, del suo livello d’ansia contribuendo ad innalzarlo ulteriormente. Per contro, esprimendo agli altri, senza paura, la propria tensione nei momenti in cui si manifesta, essa generalmente si attenua, permettendo di dar sfogo anche all’espressione delle altre emozioni e dei sentimenti.

Il Mito dell'Obbligo

Tale mito è connesso al precedente. L’adesione ad esso comporta da un lato l’incapacità di rifiutare un piacere ad un amico o, più in generale, di dissentire dalle opinioni espresse da persone a cui si desidera piacere; dall’altro la convinzione che ogni richiesta che facciamo agli altri sia un’imposizione e come tale vada evitata per non cagionare fastidio o angustia. Nel primo caso si tende ad agire per obbligo, nell’altro non si agisce per paura di obbligare gli altri. Al contrario, un rapporto interpersonale soddisfacente e stabile richiede la capacità di non accondiscendere alle richieste altrui qualora non le ritenessimo compatibili con i nostri impegni e di avanzare richieste ragionevoli agli amici. Come risultato delle frustrazioni derivanti dall’adesione di questo mito, la persona inizia a proiettare la responsabilità della comunicazione verso coloro che le sono vicini, fino a concludere di essere incompreso. Inizia allora a nutrire la speranza di incontrare la persona eletta, la sola in grado di comprenderlo, che sappia spontaneamente anticipare e soddisfare ogni sua implicita e sottintesa richiesta, prevenirgli ed evitargli ogni lavoro o incarico sgradito. Tale aspettativa nella maggior parte dei casi viene disattesa, generando sfiducia, isolamento e diffidenza nei confronti del genere umano. L’unico modo perché il comportamento degli altri possa venir incontro alle nostre necessità è quello di comunicare sempre il nostro punto di vista e le nostre attese.

Il Mito della Modestia

Gli individui che aderiscono a questo mito ritengono che la modestia sia una virtù obbligata, per questo sono incapaci di vivere e accettare con equilibrio il riconoscimento dei propri meriti e dei propri pregi. Tale convinzione si traduce in disagio di fronte ad apprezzamenti e complimenti, sebbene essi siano realistici e fondati. Questo atteggiamento lascia il posto al formarsi di un’idea negativa di se stessi (o al contrario un’ostentazione forzata di modestia accompagnata segretamente da una visione narcisistica di sé). È in questo modo che l’attenzione dell’individuo si può concentrare sugli aspetti peggiori o deboli della propria personalità e, esaltando i fallimenti, innescando un meccanismo d’ansia e depressione, oppure sul mascheramento dei propri pensieri narcisistici, esaltando le proprie debolezze ma non riuscendo ad accettare le critiche. In realtà:

  1. Ogni persona ha il diritto di valorizzare e riconoscere le proprie qualità

  2. Quando ci si presenta è importante parlare nella giusta misura di sé e dei propri aspetti positivi

  3. È necessario accettare i complimenti senza minimizzarli e valorizzare noi stessi e i pregi altrui.

Il Mito del vero Amico

L’amicizia è considerata nella nostra tradizione un grande bene. Ciò che intendiamo con il “mito del vero amico” consiste nel convincimento che l’affetto tra due persone amiche possa arrivare al punto tale da anticipare e comprendere i bisogni, i pensieri, le aspettative l’uno dell’altro, senza che ci si debba esprimere in proposito. Ovviamente pretendere ciò è impossibile, e il mancato soddisfacimento di queste aspettative genera ovviamente delusione, che si traduce in scontro. È solo comunicando ed esprimendoci apertamente che potremo essere intesi e trovare un accordo costruttivo. Un modo frequente di interpretare questa discordanza, tra quello che si desidera dagli altri ma non si manifesta apertamente e quello che realmente fanno gli altri, è di pensare che la gente si approfitti di noi o non ci tenga nella dovuta considerazione. Questo mito è anche associato al convincimento che esista una gerarchia di valori valida allo stesso modo e nella stessa misura per ciascun individuo. In tale prospettiva si presume che ciò che per noi è importante lo sia ugualmente anche per gli altri. Anche in questo caso è solo parlandone chiaramente che si possono evitare incomprensioni e delusioni

Ma cosa ci insegnano questi quattro Miti? Frequentemente siamo portati a valutare la persona (nostra o altrui) a partire dal comportamento: “Mi sono comportato male? Allora sono cattivo”, “Ha sbagliato? Allora non vale nulla.” Si attua in questo modo un processo inferenziale euristico che da un particolare volge all’universale. Il comportamento in realtà è un fatto esteriore, situazionale, spesso temporaneo e sporadico. È consigliabile smettere di voler giudicare se stessi e di non accettarsi o di accettarsi solo in modo condizionato. Si deve accettare tutto di sé, anche se si distinguono ovviamente i comportamenti che possono essere utili ed efficaci dai comportamenti che non lo sono. Siamo come un cesto pieno di diverse qualità di frutta: alcune sono buone, mature, altre acerbe, altre ancora marce. Non per questo si deve buttare via tutto il cesto. Allo stesso modo il valore umano non dipende da alcuni comportamenti e non è il caso di passare tutta la vita a voler dimostrare che si è “qualcuno”, che si ha “valore”: il valore non si ha, come se fosse un frutto in più tra i tanti; il valore è il cesto, che svolge la sua funzione, indipendentemente dai singoli frutti, dai singoli comportamenti. Allora, accettare se stessi significa accettare anche i propri difetti, senza far più nulla per cambiarli? Certamente no, perché significa soltanto riconoscere che la perfezione nelle cose umane è una via da percorrere e non un risultato già acquisito o la condizione di partenza per vivere bene.

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