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Il razzismo inconscio

people protesting and holding signs

#LILIPSY by Fabrizio Di Girolamo

Il razzismo inconscio

Teorie psicosociali sulla formazione di idee discriminatorie.

“Prima gli Italiani”;

“Ci rubano il lavoro”;

“Io non sono razzista, ma…”;

“Sono tutti delinquenti, ho paura, non voglio camminare vicino a loro”.

Quante volte abbiamo sentito frasi del genere rivolte ad immigrati o etnie minoritarie, soprattutto in questo periodo? Molte delle persone che pronunciano queste affermazioni le sostengono con una logica di fondo che per quanto condivisa da molti, è in realtà frutto di un processo già conosciuto da tempo.

Infatti, uno dei temi che ha sempre affascinato sociologi e psicologi sociali è stato quello di definire i meccanismi sottostanti alla percezione dei gruppi. Quando sentite dire da qualcuno “io non ho pregiudizi”, sappiate che sta mentendo. L’essere umano, infatti, tende a suddividere il mondo sociale, etichettando persone ed eventi. Ciò avviene anche in maniera inconscia, indipendentemente dalla nostra volontà. D’altronde sono evidenti i vantaggi evolutivi che questo comporta: la mole di dati che dovremmo analizzare sarebbe troppo grande se non sfruttassimo queste scorciatoie cognitive.

Il fenomeno, detto Categorizzazione Sociale, permette di dedurre informazioni immediate e verosimili su una persona, in pochissimo tempo e sprecando pochissime risorse, al costo però di una probabilità di errore non marginale (per questo è detto Ragionamento Euristico). Proprio da questo errore nascono le discriminazioni razziali e le false credenze. La semplice parola “professore” è collegata automaticamente a uno stereotipo presente nei nostri ricordi: possiamo inferire che è un uomo, quasi sicuramente laureato, possibilmente con più di trenta anni. Spesso a ciò si associa anche un’immagine mentale che possiede tutte le caratteristiche (vestiario, fisico, ecc.) che accomuniamo all’idea di professore.

Il meccanismo è lo stesso quando si parla di gruppi. In questi casi, la prima cosa che la nostra mente categorizzante compie è dividere il gruppo cui si appartiene da quello a cui non si appartiene. Tendenzialmente, i membri del proprio gruppo sono considerati più simili tra loro di quanto invece non sia, mentre le differenze con i membri di un gruppo esterno sembrano più marcate (Wilder 1978). La categorizzazione non ha effetti solo sulla sfera cognitiva, ma anche emotiva: si tende infatti ad associare elementi a carattere negativo e permanente al gruppo esterno, mentre il proprio è visto più spesso sotto una luce positiva (basti pensare al calcio: i tifosi avversari, nonostante assistano alla stessa partita, avranno valutazioni diverse e tenderanno a favorire la propria squadra). Questa valutazione così sbilanciata è spiegata da Tajfel e Turner (1979) secondo meccanismi funzionali: vedere il gruppo di appartenenza positivamente aumenta l’autostima e una visione positiva di se stessi.

Ma come nasce uno stereotipo? Esistono due vie principali: la prima è l’esperienza diretta. Tendiamo a inferire tratti di personalità basandoci solo sul comportamento manifesto, anche quando determinate azioni potrebbero essere spiegate da fattori esterni (es. profugo nigeriano non lavora = tutti i nigeriani sono pigri e vivono a nostre spese). Questo è il cosiddetto “errore fondamentale d’attribuzione” (Heider 1958). La seconda via per la formazione di uno stereotipo è l’apprendimento sociale. Difficilmente uno stereotipo è acquisito in maniera diretta, anzi spesso è un bagaglio culturale trasmesso all’interno di un contesto sociale (nella maggior parte dei casi la famiglia). Studi dimostrano che bambini di cinque anni possiedono stereotipi simili a quelli di parenti e amici (Rosenfield 1981). Ovviamente anche la propaganda politica e i media svolgono un ruolo fondamentale per la formazione, il mantenimento e l’inasprimento degli stereotipi.

Possiamo dire quindi che la nostra percezione della realtà è fatta di categorizzazioni e di etichette: tutti noi, che lo vogliamo o no, ragioniamo in questo modo. Allora dove nasce il conflitto col gruppo stereotipato? Quando nasce la discriminazione? Possiamo citare tre teorie che spiegano esaustivamente il fenomeno:

  1. Teoria del conflitto realistico (Sherif 1966): la presenza di risorse o beni di qualsiasi entità ambite da più gruppi provoca competizione e creazione di stereotipi e giudizi negativi nei confronti del gruppo “avversario”;

  2. Teoria dell’identità sociale (Tajfel 1971): anche in assenza di risorse contestate, il conflitto si manifesta per la semplice appartenenza a un gruppo e lo sviluppo di una “identità sociale” che porta a favorire il proprio gruppo e sfavorire l’altro;

  3. Teoria della deprivazione (Vanneman e Pettigrew 1972): il conflitto nasce quando uno dei due gruppi possiede un bene ritenuto spettare di diritto al proprio gruppo e l’assenza di questo bene è imputata a un’ingiustizia.

Tutte queste teorie hanno alle spalle una lunga storia di verifiche sperimentali e prove empiriche a sostegno.

Dopo queste premesse teoriche credo risulti facile intuire il perché dell’escalation di discriminazione che l’Italia sta attraversando in questi anni. L’ondata d’immigrazione incontrollata che attraversa il mediterraneo, in un periodo storico caratterizzato da crisi economica e insicurezza riguardo al futuro, rappresenta terreno fertile per la proliferazione di idee razziste: italiano contro immigrato. Nonostante ciò, spero di aver reso chiaro al lettore che molte delle idee negative riguardo all’immigrazione non sono frutto di un ragionamento logico, ma nascono da meccanismi inconsci, automatici, superficiali e molto fallaci. Gli stereotipi si possono combattere con l’informazione, con un’attenta valutazione dei fatti, attraverso fonti sicure e veritiere, evitando di considerare un evento singolo come rappresentativo della realtà e soprattutto provando a mettersi nei panni degli altri: questo è il primo piccolo passo per combattere la paura, il razzismo e l’odio, a prescindere dall’idea politica.

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