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Squid Game e Psicologia

squid game

La serie del momento: Squid Game

ATTENZIONE! QUESTO ARTICOLO CONTIENE SPOLER! 

Il dominio dei prodotti di intrattenimento coreani nel mercato occidentale si espande sempre di più: dal K-pop sempre più in voga, ai film (Parasite premio oscar), agli anime (ancora storicamente di dominio giapponese, ma insidiati sempre di più dai cugini coreani) fino ad arrivare, con Squid Game, alle serie TV. Il “Gioco del Calamaro” è diventata ufficialmente la serie più vista su Netflix al lancio e probabilmente la serie TV coreana più vista di sempre. 

Protagonisti della storia sono 456 individui che nella loro vita reale non hanno più niente da perdere. Si tratta di persone indebitate, minacciate dai creditori o ricercate dalla polizia per frode che hanno un’unica speranza per poter sopravvivere dignitosamente: trovare un’ingente quantità di denaro. Per queste ragioni vengono selezionate da una misteriosa organizzazione per partecipare a un gioco che consentirà loro di vincere 45.600.000.000 won. In un grande parco-giochi situato su un’isola sudcoreana i protagonisti per aggiudicarsi il premio dovranno superare sei step che corrispondono a sei diversi giochi per bambini

Perché tutto questo successo?

A mio parere, i motivi del successo di Squid Game sono da ricercarsi sia in fattori di “marketing”, sia in fattori psico-sociali. Infatti, al netto di un prodotto buono ma che non ha nulla di eccezionale (a mio parere), parliamo di una serie TV che presenta quelle caratteristiche che la rendono vincente.

🔸Brevità (9 episodi che puoi finire in pochi giorni e che non appesantiscono lo spettatore);
🔸Circolarità della trama e ottimi ritmi narrativi;
🔸Ottimo comparto visivo e registico;
🔸L’utilizzo di giochi uguali o simili a giochi della nostra infanzia (basti pensare a “Un, due, tre, Stella!”, cavallo di battaglia della serie);
🔸Un’ottima caratterizzazione dei personaggi (ognuno dei quali ha un ruolo e una connotazione ben precisa all’interno della serie e che permette di rispecchiarsi in loro e nelle loro scelte).                

Ma in realtà possiamo dire che il vero motivo del successo di questa serie sta nelle tematiche affrontate e nell’aspetto psicologico.

La psicologia di Squid Game

La cura dei creatori per gli aspetti psicologici è evidente già dalla scelta del vestiario: concorrenti con tute da ginnastica anni ’80, privati del nome e con solo un numero a distinguerli, e guardie con maschere e voci camuffate. Tutto ciò con lo scopo di “deindividualizzare” i personaggi, che si scarnificano diventando simboli. L’autore potrebbe essersi rifatto al famosissimo Esperimento della Prigione di Stanford di Zimbardo, nel quale prigionieri e guardie venivano vestiti in modi diversi per enfatizzarne le differenze, e non si permetteva il contatto oculare o fisico, con lo scopo di distanziare le persone l’una dall’altra, anche psicologicamente. 

I personaggi

Altra chiave psicologica del successo di Squid Game è, come già accennato prima, l’utilizzo di personaggi molto caratteristici e con i quali il pubblico si rispecchia

  • il protagonista, personaggio buono che a causa di scelte sbagliate ha visto la sua vita andare in frantumi;
  • l’amico d’infanzia, quello che credi abbia avuto successo nella vita, quello perfetto fuori ma che nasconde un animo freddo e calcolatore;
  • la ragazza tenebrosa e abile che fugge da un passato burrascoso nascondendo il suo animo gentile sotto una maschera (ed è anche bella, del resto il fanservice in queste serie non manca mai);
  • il classico bullo, delinquente pronto a tutto per raggiungere i suoi scopi, senza rimorso.

 

Sono tanti altri i personaggi degni di nota, che rispecchiano lati del nostro carattere, o dei modi in cui anche noi reagiremmo se fossimo nei loro panni.

I giochi

Fotogrammi dalla scena di del gioco "Un, due, tre, Stella!", sicuramente il più iconico della serie

Per non parlare dei giochi: la contrapposizione tra l’innocenza dei giochi dell’infanzia al sadismo e alla brutalità della sopravvivenza crea una dissonanza cognitiva che tiene lo spettatore incollato alla TV, amplificando il senso di impotenza e sgomento (del resto, è esattamente quello che succede nella serie, con i VIP che controllano il gioco e che lo finanziano scommettendo su chi vincerà o meno, per il puro piacere di assistere ad una carneficina).

Si creano anche tutte quelle dinamiche tipiche di quando giocavamo a quei giochi: le femmine non vengono scelte, c’è chi viene escluso e viene scelto per ultimo, antipatie e simpatie, abilità contro forza. Lo spettatore resta in attesa di scoprire il gioco successivo, come verrà adattato nel divenire un massacro, e come riusciranno questa volta i protagonisti a scamparla. Un mix vincente.

Oltre la trama

Squid Game si inserisce in quel filone di opere che sono destinate al successo in questo periodo storico di forte disuguaglianza economica e sociale, che stimola le fantasie di rivalsa e di lotta da parte degli emarginati, che immaginano un modo (anche assurdo) di cambiare la propria vita. I temi della lotta di classe sono molto sentiti in Corea e in tutto l’oriente: già con Parasite, il film con cui Bong Joon-ho ha vinto quattro Oscar nel 2020, in cui i poveri sono schiacciati dai ricchi e dall’illusione di poter salire la scala sociale: impossibile, è tutto un bluff, e chi tenta lo scatto finisce molto, molto male.

Da qui, una serie basata sui giochi di sopravvivenza diventa simbolo di chi non ha alternative, che è disposto a morire pur di avere una possibilità. Simbolo del materialismo umano, dell’attaccamento al denaro piuttosto che ai valori, che vengono meno quando è in gioco la sopravvivenza. 

Sotto la superficie di un massacro spietato e crudele, vi è una critica del concetto di amicizia, portata all’estremo dalle situazioni di vita o di morte. Situazioni che fanno emergere la vera natura dell’essere umano. Ma, allo stesso tempo, dimostra che il successo individuale non esiste: nessuno dei protagonisti sarebbe arrivato così avanti senza l’aiuto dell’altro, senza un minimo di virtù o di gentilezza. Insomma, una morale ambivalente, tra speranza per l’umanità e rassegnazione verso la sua natura maligna. 

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