#LILIPSY by Fabrizio Di Girolamo
Uno Psicologo nei Lager
La storia di Viktor Emil Frankl, un unicum nella storia della psicologia.
Viktor Emil Frankl fu un medico (neurologo e psichiatra) che, durante la seconda guerra mondiale, venne rinchiuso in ben 4 campi di concentramento nazisti.
Di stampo psicanalista (come la maggioranza al suo tempo), fu un grandissimo innovatore: secondo Frankl infatti l’origine della sofferenza psichica non era da ricercarsi in una frustrazione delle pulsioni sessuali (come sosteneva il buon vecchio Freud) ma al contrario deve essere ricercata nella “frustrazione valoriale”, ovvero dalla percezione soggettiva di Sé e del proprio vissuto. Questo comporta che, quando un individuo non si sente soddisfatto, cerca soddisfazione all’esterno (attraverso alcol o droghe) o attraverso altri meccanismi difensivi.
Questa teoria venne denominata “analisi esistenziale” , metodo che tende a evidenziare il nucleo profondamente umano e spirituale dell’individuo, in netta contrapposizione con la psicanalisi classica (il metodo di Frankl è considerato come il terzo metodo della scuola viennese (dopo quelli di Freud e Adler).
Le sue teorie e i suoi modelli di interpretazione della psiche umana sono senz’altro stati influenzati dalla sua drammatica esperienza di deportato. Durante l’annessione dell’Austria alla Germania nazista, il giovane Frankl decise di restare con i suoi familiari, piuttosto che fuggire da solo negli Stati Uniti.
In quegli anni sposò un’infermiera 23enne di nome Tilly Grosser. Poco dopo la loro unione, Frankl venne deportato insieme a tutti i suoi cari ad Auschwitz.
Tilly non era stata presa, ma aveva deciso di seguirlo in quello che credeva essere un campo di lavoro, chiedendo esplicitamente di salire sul treno con lui.
Fu un errore madornale che comprese troppo tardi all’interno della struttura. Per aggirare la sofferenza, Frankl passò la maggior parte del suo tempo a sperimentare tecniche per alienarsi dagli indicibili orrori nazisti, offrendo sostegno psicologico ai suoi compagni imprigionati.
Da internato, fece una profonda analisi psicologica della vita nei lager e delle 3 fasi che i prigionieri affrontavano: la fase dell’accettazione del campo di concentramento; la fase della vita vera e propria nel lager, e la fase successiva al rilascio. Il periodo di reclusione fu tremendo: venne colpito dal tifo che quasi lo uccide. Proprio durante questi drammatici istanti teorizza l’importanza della “ricerca di significato” per un sano equilibrio psicologico: lui chiama questa abilità “autotrascendenza“, ovvero lo spostamento dello scopo della vita non in sé ma in qualcosa di esterno.
Non a caso notò che i prigionieri che affrontarono meglio la prigionia furono quelli proiettati verso il futuro, verso un chiaro e specifico obiettivo ben definito, verso una speranza di realizzazione.
Dopo aver visto il padre morire tra le sue braccia ed essere scappato per miracolo, Frankl impiegò i mesi successivi per trovare sua madre e la sua amatissima moglie, avendole perse durante la deportazione.
Nel 1945, però, venne a sapere della morte di entrambe, e ne restò profondamente ferito al punto tale che scrisse:
« Guai a chi non si ritrova l’unico suo sostegno del tempo trascorso nel lager – la creatura amata.
Guai a chi vive nella realtà l’attimo del quale ha sognato nei mille sogni della nostalgia, ma diverso, profondamente diverso da come se l’era dipinto.
Sale sul tram, va verso la casa che per anni ha visto davanti a sé nei pensieri e solo nei pensieri, suona il campanello – proprio come lo ha desiderato ardentemente in mille sogni… ma non gli apre la persona che avrebbe dovuto aprirgli – e non gli aprirà mai più la porta. »
Morì a Vienna, sua città natale, nel 1997, dopo aver vissuto una vita lunga e serena ed essere diventato uno degli psicologi più importanti (e più innovativi) del nostro secolo.